I media riportano con grande enfasi le tragedie che si stanno susseguendo con un ritmo che toglie il respiro . Una striscia di sangue e di distruzione si diffonde come un blob nel pianeta.
Quando succede un disastro o una tragedia, tutti gli individui e le comunità sono stressati. Non ne sono colpite solo le persone direttamente coinvolte: anche quelli che vivono nei paesi e nelle città colpite sono coinvolti. Come in una cipolla si va dallo strato interno fino a quelli più esterni. Anche chi abita distante chilometri è toccato dalle tragedie. Ci si identifica e le si sente vicine; si agitano paure indicibili e ci si può sentire scossi nelle fondamenta. Quando caddero le torri un brivido di paura scosse anche noi italiani. La morte di Loris nel ragusano ha angosciato tanti italiani. Un aereo che sparisce, un traghetto che cola a picco, un’alluvione che travolge una cittadina, un terremoto, una ragazzina assassinata sono disastri che colpiscono un po’ tutti. Ognuno reagisce secondo la sua personalità e la sua storia, ma è praticamente impossibile esserne immuni fosse anche solo per mantenere il controllo. La mente non può non registrare episodi tanto cruenti. Le tragedie sono fonte di stress di comunità, oltre che per le vittime ed i loro parenti.
Quando accade un disastro c’è bisogno di dare aiuto in modo veloce; c’è bisogno di dare conforto, di ridare speranza, di lenire le ferite, di mitigare le paure, di intercettare le depressioni; il lavoro di recupero può richiedere anche molto tempo. A volte i segni rimangono per il resto della vita.
Il disastro va visto non solo dal versante di chi lo ha subito; anche chi è chiamato a farvi fronte ha i suoi problemi. Gli operatori sono a loro volta esseri umani che non possono non identificarsi con le vittime o con le situazioni di cui si occupano. Possono soffrirne. Può capitare che le risorse sanitarie presenti nella comunità siano casomai già ridotte all’osso ed a loro volta sotto stress. Eppure nei momenti di disastro esse devono dare il doppio di quel che sono abilitate a dare normalmente. Per fortuna si attivano molte risorse dal volontariato; anzi, l’emozione dei disastri facilita l’emersione di risposte volontarie. Non sempre però sono competenti: avere slancio e buona volontà non equivale ad avere competenza. Senza volere potrebbero fare più danni dell’aiuto che cercano di offrire. Per questo è necessario che anche i volontari siano ben formati prima di intervenire. Ma se non ci fosse il volontariato i servizi non ce la farebbero proprio.
Infatti in quei momenti ricevono una maggiorazione di domanda anche oltre le loro capacità di risposta; di norma inoltre si pongono sfide di coordinamento tra gli interventi. Nella confusione che segue un disastro c’è il rischio di pestarsi i piedi l’un l’altro.
Eventi recenti, come le inondazioni di Genova o i disordini seguiti all’affondamento di una nave nel Mediterraneo hanno evidenziato la necessità di una collaborazione tra i gruppi e le agenzie istituzionali e delle comunità. Assieme alla mobilitazione dei servizi, serve il sapersi unire per affrontare in modo efficace l’aiuto da dare alle popolazioni, e particolarmente a quella parte con condizioni speciali di svantaggio, pensa a chi ha qualche minorazione, e poi per il recupero psicologico di tutte le persone colpite.
Il mondo che viviamo è pieno di insidie e di rischi. Occorre essere preparati per gestirle in modo da non aggiungere al disastro altri disastri. Per fare ciò c’è un grande bisogno di formazione e di organizzazione.
Bisogna imparare dalle esperienze, anche da quelle disastrose. E’ questa una lezione che ha permesso di formare la Protezione Civile: un esempio di intervento competente invidiato da governanti di altri paesi. Ma ciò non basta, bisogna raggiungere i cittadini, tutti. Le scuole aiutano i bambini a fronteggiare i grandi eventi naturali, ma sono le tragedie provocate dalla mano dell’uomo quelle che si intrufolano in modo più subdolo nella mente, specie di chi è più fragile.
C’è quindi uno spazio, enorme, ancora vuoto e su cui i cittadini, a partire da chi ha ruoli di governo e di governo sanitario, dovrebbero impegnarsi. Formulerei il quesito su cui lavorare in questo modo: come le persone e le comunità colpite possono ricevere rapidamente le cure di cui hanno bisogno? e poi cosa devono avere a disposizione i cittadini e le comunità prima che si formi il bisogno?
Chi è più ironico e spiccio potrebbe rispondere alla seconda domanda: spegnere la televisione. Sottolineano in questo modo l’effetto deleterio indotto dalla morbosa enfasi data a racconti giornalistici spesso inutili sotto il profilo dell’informazione.
Questa risposta però è insufficiente perché non risolve le esigenze che derivano dall’essere vittima di situazioni tragiche. Se anche i giornalisti le infiorettarsero di meno rimarrebbero ugualmente esperienze catastrofiche.
La risposta migliore è: inizia a lavorare insieme prima che si verifichi un’emergenza e forma una coalizione di assistenza sanitaria rapida e qualificata. Ricorda che una volta superato il momento in cui garantire il minimo di sopravvivenza, rimangono le ferite psicologiche. Sono queste quelle che possono invalidare la vita ancor più del danno materiale e sono quelle che si spargono più lontano, più in largo nella società.
Una forma di pudico evitamento fa sì che si fatichi a parlare apertamente di questi bisogni. Chi ha subito un disastro vuole (vorrebbe) l’immediata ricostruzione delle condizioni che aveva prima del disastro. Altrettanto sembrano pensare molti governanti: adesso che ti abbiamo ridato un tetto che cosa altro vuoi? Dovresti essere di nuovo felice! Vogliono fare credere negli spot televisivi post-disastro. Dimenticano che le ferite psicologiche non se ne vanno di certo con un tetto ritrovato. Minano la sicurezza personale, inquietano le notti insonni, generano insicurezza ed ansia che vanno curate. Da noi si fatica a comprendere questa esigenza: c’è troppa sufficienza verso gli aspetti psicologici. A volte la gente sembra vergognarsi a riconoscere questi (propri) aspetti.
La ricerca scientifica ha messo ben in chiaro quali sono i danni all’equilibrio emotivo delle popolazioni viene arrecato dalle tragedie. Ad esempio la caduta delle Torri è stata causa di una epidemia di depressioni, crisi di panico, alcolismi, tentativi di suicidio e di condotte di dipendenza. Il carico di sofferenza psichica causato dai disastri e dalle tragedie è riconosciuto. Per questo ad esempio dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre, si è formata una coalizione permanente per la salute mentale di comunità pronta ad agire non solo per affrontare le esigenze post-disastro, ma anche per preparare al meglio le persone ad affrontare le crisi.
In apertura di un nuovo anno auguro ad ognuno ogni bene. Siccome il mondo che ci circonda non è esattamente senza minacce, auguro che in caso di disastro ci sia una coesione collaborativa tra servizi e volontariato competente, capace di offrire risposte adeguate, sufficienti e rapide. Sarebbe poi bello se esistesse la formazione di tutte le persone ed in tutte le comunità su come funziona la mente umana e su come può essere resa più in grado di resistere agli effetti indotti dalle tragedie e dai disastri. Oltre a produrre bulloni o denari sarebbe bello se le comunità producessero quella capacità di resistere alle pressioni emotive negative, la resilienza. Ne parleremo di nuovo.
Umberto Nizzoli