Nel pur giovane settore delle dipendenze patologiche si sono depositate generazioni di terapeuti che si ispirano ad approcci tra loro molto differenti. C’è una piccola storia e con essa una sequenza di metodi e di modelli clinici; la parte di professionisti che si avvicinò alle dipendenze nella decade che va dalla fine dei ’70 fino all’ultima parte degli ’80 deve molto a Claude Olievenstein. La lettura e la citazione di suoi lavori era molto frequente.

Per me poi fu qualcosa ancora di più. Per capire perché devo fare un po’ di autobiografia.
In Italia i servizi per le tossicodipendenze erano sorti in maniera non programmata durante gli anni ’70. E’ normale, almeno in Italia, che vi sia una fase in cui le risposte si susseguono spontaneamente sulla base di iniziative personali o locali prima che lo Stato dia indicazioni normative. A volte la fase può prolungarsi a lungo: nulla a volte è più stabile di ciò che è provvisorio.

Così a fronte dell’apparizione nelle strade dei primi tossicodipendenti subito, all’inizio del ’70 di fronte allo stupore ed allo spavento sociale, cominciarono le prime risposte. Qualche psichiatra iniziò a somministrare metadone o morfina nell’ambulatorio di qualche reparto manicomiale, qualche prete accolse in parrocchia i primi assistiti, nelle aule universitari e nelle strade i primi sociologi iniziarono a inserire tra i temi della contestazione le cause sociali che, secondo loro, avevano creato la dipendenza. Di lì a poco queste primi estemporanee “sorgenti” evolvettero: gli ospedali psichiatrici si chiusero non solo ai tossicodipendenti. Era in corso la preparazione della cosiddetta “legge Basaglia” che nel 1978 avrebbe dato corso alla chiusura dei manicomi e la psichiatria si andava estraniando dal campo delle dipendenze che non riconosceva di sua pertinenza. Di converso il sentimento comune si scagliava contro anche alla sola insinuazione che la psichiatria potesse occuparsi di tossicodipendenti: si sarebbero sollevate maree di contestazione.

Nel vuoto che il ritiro della psichiatria già praticamente da subito, ebbero buon gioco le tre letture che dominarono tutti i ’70: la sociologica – politica che riteneva povertà ed emarginazione le uniche cause e provvedeva con la lotta ai poteri forti e con la messa a disposizione di sostegni sociali e lavorativi; la biologica che riteneva la carenza di endorfine la causa e provvedeva sostitutivi ed libitum; infine la morale – educativa, gestita in larga misura da religiosi, che riteneva la crisi di valori e le mancanze educative nella società e nella famiglia le vere cause e provvedeva con percorsi di recupero in comunità terapeutiche spesso intese come luoghi di estraniazione dal sociale, autoritarie e simili ai manicomi che si venivano chiudendo. Queste tre strade non si incontravano mai: ognuna seguiva i suoi circuiti. Si scontravano però, e duramente, sui media e nell’agone politico.

Successe però che vi fosse una profonda riorganizzazione della sanità; si passò dall’esistenza di una miriade di enti assistenziali alla costituzione di un’unica organizzazione che inglobava tutti i servizi (medici di famiglia, medicina legale, igiene pubblica, ospedali generali, psichiatria, eccetera).

Poco dopo, era il 1980, la legge decise che doveva nascere anche il Servizio per le tossicodipendenze, il Sert. E ci voleva un dirigente primario che lo dirigesse. Quello fu l’antefatto che mi immise nel settore delle dipendenze.

Infatti nella Unità Sanitaria di Reggio Emilia a capo dei servizi sanitari vi erano il direttore dell’ospedale generale, il direttore dell’ospedale psichiatrico, il direttore dei servizi di igiene pubblica e il direttore dei servizi per la maternità e l’età evolutiva, cioè io.

Fu allora che la Presidenza dell’Unità Sanitaria dovette scegliere il direttore del Sert.
Il direttore dell’ospedale generale proprio non ci teneva, il direttore dei servizi di igiene pubblica neppure. Rimaneva il direttore dell’ospedale psichiatrico e me. Ma il direttore dell’ospedale psichiatrico era fuori gioco: anziano e rappresentante di quei servizi da cui proprio si riteneva di dover proteggere i tossicodipendenti e non solo. A quell’epoca bastava dire che c’era il rischio di psichiatrizzare per sollevare un generale vade retro.

Quindi toccò al direttore dei servizi per la maternità e l’età evolutiva visto che il tema riguardava i giovani (io mi occupavo da molto già di adolescenti) ed il servizio era giovane anzi neonato. Credo che contasse un poco anche la mia età, avevo 31 anni; i direttori degli altri servizi una sessantina.

Allora il Presidente mi disse: tocca a te, Umberto; ed io mi diedi da fare. Cominciai a guardarmi intorno. Prima raccolsi quel che si stava facendo nel mio paese; ma non ero completamente soddisfatto.

Avevo appena terminato il compito di presidente della commissione per il concorso nazionale di storia della psichiatria; ne avevo presentato un’anteprima del museo di storia della psichiatria nel resau internazionale di psichiatria che si era tenuto ad Arezzo. L’avevo presentato assieme a Basaglia: era stato un grande successo. E adesso occuparmi di tossicodipendenze senza la psichiatria, mi sembrava troppo. E’ vero che la psichiatria allora si era ritirata praticamente da tutti gli ambiti della clinica per occupare un ruolo molto più determinante in ambito di programmazione politica; ma io, psicologo, insegnavo psicopatologia alla scuola di specialità di psichiatria dell’età evolutiva e mi pareva impossibile anche solo fare un piano assistenziale senza il contributo della psichiatria.

In quegli anni mi appoggiai a Cancrini; per molti motivi, anche lui “basagliano”, di sinistra, con un approccio sistemico, impegnato nella terapia della famiglia. Dopo poco esce il suo libro “Quei temerari sulle macchine volanti” che fece epoca. Nei suoi quattro tipi di tossicodipendenze, uno apparteneva alla competenza psichiatrica. Faceva specifico riferimento a Glover, per via della patologia costellare nevrotica e psicotica, ed a Olievenstein. Fu così che incontrai la teoria dello specchio infranto.

In decine di supervisioni quel disturbo evolutivo venne evocato, fino a diventare oggetto di relazioni e di scritti; anche miei. Fu così che incontrai Olievenstein prima nelle teorie che di persona.

Ma il panorama italiano rimaneva molto difficile. Al di là di qualche “isola” geografica, si poteva parlare di psicologia, di psicoterapia e di psichiatria solo nei congressi. Il dominio era occupato quasi tutto dalle tre “ideologie” che dicevo: dagli a tutti il metadone; no, mandali tutti in comunità; no, è tutta colpa della società.
Io invece cercavo le vie personalizzate delle cure, i piani assistenziali individualizzati, il gusto del discutere di ogni caso come fosse una storia clinica speciale, comunque unica.

Ora è ben vero che in Italia si è abituati ad avere grandi differenze da un territorio all’altro. Pensate che si va da regioni che si limitano praticamente a somministrare il metadone a tutti gli assistiti senza garantire loro null’altro, a regioni in cui il metadone è visto parecchio male e si preferisce forzare la gente a ricoverarsi in comunità.

In un contesto siffatto non c’era niente di male che io, nella mia provincia prediligessi la psicoterapia e le cure integrate facendo per ogni paziente un piano personalizzato. Avrei potuto andare avanti a lungo e tranquillo così. Ma non mi bastava. Credevo nella mia scelta metodologica e volevo cercare di affermarla, nella mia regione almeno se non in Italia. Per questo i servivano alleati; ed alleati importanti.
Anni prima era successo qualcosa di analogo.

Quando sempre nella mia città, a Reggio Emilia, sorsero i primi servizi territoriali, l’assessore che guidava la riforma siccome non voleva appoggiarsi né ai vecchi psichiatri formatisi nei manicomi, né ai nuovi psichiatri che non volevano avere più niente a che fare col passato, quelli che pensavano che bisognasse redigere una specie di cordone sanitario attorno ai manicomi per farli implodere, cercò aiuto all’esterno da quelli che volevano cambiare radicalmente il manicomio, ma dall’interno cambiando regole e leggi e trasferendo i malati nel territorio. Fu così che lui, Livio Montanari, si rivolse a Basaglia; il resto è storia piuttosto nota. Io lavoravo per Livio Montanari. Dieci anni dopo toccava a me direttamente fare qualcosa di analogo. Insoddisfatto delle risposte italiane e non disposto a gestire le cose “nel mio piccolo” mi rivolsi all’estero, ai francesi innanzitutto ed alla psicanalisi in secondo luogo; il che praticamente coincideva. Fu così che conobbi e frequentai in periodi successivi Soulé, Jeammet ed Olievenstein.

Ognuno di loro, ed i loro collaboratori, mi hanno aiutato e sono anche venuti in Italia e nella mia città per tenere conferenze e lezioni magistrali.
Olievenstein ha segnato in modo profondo la cultura professionale sulle dipendenze. Il suo pensiero ha lasciato segni sostanziali che hanno occupato l’arco di anni che va dalla metà degli ’80 fino all’alba del 2000. Ma poi ancora più avanti, ancora nel 2007, è stato presente nel panorama editoriale anche se la sua influenza era già parecchio diminuita.

Il suo pensiero ha spaziato dalla eziopatogenesi delle dipendenze, alla cultura sociale, all’antropologia, alla clinica, all’organizzazione sanitaria senza mai trascurare la politica e l’impatto dei media. Fu un grande innovatore, sempre creativo, antagonista e mai quieto. Come quando dichiara che “chiunque tra noi può prendere, prende o prenderà delle droghe. Conosciamo migliaia di persone che ne fanno uso e che non sono né diventeranno tossicomani”.

Fare un bilancio visto dal versante italiano non è semplice.
Innanzitutto per me è alla base dell’approccio scientifico razionale alle dipendenze, quel metodo che permette di distinguere il lavoro professionale dalla pratica basata sull’ideologia. Anche se oggi questo metodo sembra essere stato inventato ed esportato dagli americani, in realtà almeno in Italia prima di Olievenstein c’erano solo i facinorosi e gli ideologi: tramite lui è entrata la clinica basata sulla razionalità.
Ricordo quando mi scrisse che era utile che io rappresentassi in Italia la “terza via” tra gli allora dominanti opposti approcci ideologici: quello della clinica dell’accompagnamento e del rispetto degli individui messi al centro di un piano di assistenza con loro stessi condiviso.

E poi ancora la sua lotta dentro ma contro l’ospedale psichiatrico con la scelta di aprire Marmottan fuori dalla psichiatria tradizionale e ben radicato nel territorio è una lezione straordinaria che varrebbe la pena sottolineare tuttora: non si può fare senza la psichiatria ma non può essere la psichiatria dei cattedratici e dei ricoveri a farlo; serve una psichiatria rinnovata, immersa nel sociale, in rete diremmo oggi. Si tratta di un messaggio molto attuale ed ancora da realizzare perché in Italia la psichiatria “di potere” si è risvegliata e vuole accaparrarsi l settore delle dipendenze per allargare i suoi domini. Anziché apprendere dal sociale vorrebbe fagocitarlo: i Sert italiani ne sono afflitti.

Marmottan. che sorge come rottura con l’ospedale psichiatrico di cui Olivenstein era dipendente, immerso nel tessuto cittadino, di fianco ai tossicomani e non nella “torre eburnea”. Ah come rimasi impressionato nel vedere il suo studio a fianco della sala attesa dove stazionavano i tossicodipendenti! Altro che la specialità dell’ospedale psichiatrico con il direttore posizionato nei piani alti, irraggiungibili.

Marmottan che cerca un nuovo modo per fare clinica, si concentra sull’accompagnamento del tossicomane, non crede possibile assimilare le tossicodipendenze alle altre malattie mentali né crede alla possibilità di trattarli negli stessi luoghi e con le stesse tecniche.
Ma tanti altri passaggi del suo pensiero vanno ricordati: sono patrimonio della scienza delle dipendenze che è venuta progressivamente costruendosi; alcuni sono attuali, altri forse superati o emarginati dalle correnti culturali e scientifiche dominanti. Ha segnato la cultura professionale italiana soprattutto con ”Il destino del tossicomane’, Borla, uscito nel 19 84. Se devo fare un riassunto dei contributi che passarono sotto la sua autorità scientifica rischio di tralasciarne alcuni, tanti sono stati.

Ad esempio la base del contratto terapeutico che ci fu fin dall’inizio della sua professione: deve essere il paziente a dare, senza costrizioni, il proprio consenso a combattere la battaglia contro la tossicodipendenza mosso da un suo desiderio di liberazione intimo, unico e irrinunciabile. Non può esserci una imposizione esterna, provenga essa dalla famiglia o dallo Stato. Infatti si può anche proporre il metodo migliore, ma se non c’e’ ricettività, se cioè l’interessato non si sente motivato dal di dentro, se non si identifica coi contenuti del cambiamento, i risultati ottenuti resteranno precari. Oggi questo ultimo principio sembra generalmente accettato anche se i rigurgiti autoritari riappaiono continuamente. Quando però Olievenstein diceva ciò questa teoria appariva ”sovversiva”.

Oggi tuttavia si recupera il valore della pressione emotiva dei congiunti o del contesto sociale di riferimento per attivare le cure e per sostenerne il percorso. Qualche esperienza viene anche fatta forzando le cure utilizzando la relazione col mondo “giudiziario”.

Quanto fu utile Olievenstein che ci insegnava che i tossicomani non sono ne’ delinquenti da rieducare con il lavoro ne’ malati da guarire, men che meno con prodotti ”magici” o taumaturgici! Ci dava gli argomenti per contrastare le ricorrenti kermesse fra i repressori e i liberali radicali introducendo l’esigenza di affiancare i tossicodipendenti come persone che meritano rispetto e che si possono al più accompagnare e non guidare o limitarsi a prescrivere loro.

Riteneva, e giustamente, che il fenomeno dei consumi non si combatte con la repressione: la prigione come punizione presenta più rischi di quanti ne eviti ed inoltre crea confusione nei cittadini perché il tossicodipendente non è un delinquente e negli stessi tossicodipendenti perché possono equivocare la pena scontata con il riscatto di sé stessi.

Poi ancora lesse l’assunzione di droghe non come un fatto in sé “diabolico”, una specie di arrivo di un mostro nella storia della persona, ma come una soluzione che si colloca nella traiettoria della persona stessa. Se una persona cade in preda ad angoscia esistenziale oppure a disturbi gravi vuoi di ambito psicotico o nevrotico o da stato limite può cercare sollievo in qualche sostanza per il tempo che serve ma ovviamente i problemi di fondo restano: anticipò così il concetto di auto-cura del consumo di droghe.
Cruciale per l’inquadramento, quello che oggi chiameremmo assessment, considerare che ogni tossicomania è il punto di incrocio di tre elementi: la sostanza coi suoi effetti e il suo mercato; l’individuo con la sua condizione fisica e mentale; la scena del consumo con la sua cultura e le sue regole. Solo operando su tutti e tre i livelli si colgono le ragioni che hanno strutturato la tossicodipendenza e si può allora parlare di vero prendersi cura del tossicodipendente.

Formidabile però rimase la sua intuizione sul piano dell’eziopatogenesi delle dipendenze. L’individuazione dello “specchio infranto” utilizzando la metafora introdotta da Lacan, per spiegare la formazione dell’identità dell’uomo, come fase critica che struttura le condizioni psichiche per lo sviluppo della dipendenza.

Olievenstein sostiene che il futuro tossicodipendente si avvicina all’adolescenza con un senso di incompiutezza derivato dal mancato superamento della fase dello specchio durante i primi due anni di vita. Il mancato riconoscimento delle esigenze del bambino come individuo separato, derivante dalla richiesta invertita di riconoscimento da parte della madre, rende impossibile la definizione dell’individualità, e il bambino risulta costruito in maniera fittizia dalle proiezioni materne. L’immagine dello specchio è spezzata e ne risulta un profondo senso di incompletezza, che verrà colmato dalla droga, che consente un temporaneo ripristino della propria interezza mediante un ritorno al momento della fusione col sé materno.

Le specifiche qualità dell’eroina fanno poi si che il soggetto si senta, dopo la sua assunzione, sprofondato nell’arcaico, nel pregenitale; i suoi effetti peculiari permettono di riempire i vuoti dello “specchio”, annullando la fonte di angoscia. La sostanza riesce a colmare il vuoto della frattura facendo immergere il soggetto nel bagno caldo primigenio.

Il centro delle osservazioni di Olievenstein erano le eroinomanie, anche questo in un processo sociale di crescenti consumi di molte droghe in modo caotico ed “a dominio” cocaina ha portato al declino dell’attrattiva delle sue lezioni.

Ma è rimasta la metafora della “democrazia psichica” come la condizione di maturità e benessere psichico individuale.

Olievenstein era popolare in Francia con il soprannome di ”psy des toxicos”, lo psichiatra dei drogati, che parlava di loro e per loro in tv e sui giornali. Anche questa funzione ha fatto scuola e spiega l’impegno da sindacalista sostitutivo che tanti di noi fanno. Così come l’impegno a costruire reseau nazionali ed europei. Di fronte al cambiamento della scena del fenomeno tossicomanico, Olievestein rinnova la sua lettura socio-politica. Gli anni settanta erano pieni di utopia e l’ideologia aveva raggiunto i momenti più alti nel conflitto sociale. Si voleva cambiare la società e si credeva di avere gli strumenti per farlo. La patologia dell’utopia e dell’ideologia ha portato una fascia di giovani a giustificare l’uso delle droghe. Oggi invece, senza utopia e senza ideologia – intesa come rappresentazione della società – i giovani giustificano l’uso delle sostanze attraverso motivazioni meno nobili, quali la noia, l’esperimento.

Una mattina lo trovai preoccupato: un estremista aveva segnato la sua scrivania. Evidentemente si era introdotto di soppiatto ed aveva lasciato sul tavolo l’incisione di una svastica: un messaggio chiaro, per lui di origine ebrea. Leggeva l’episodio con gli occhi della politica e delle trasformazioni antropologiche e sociali in atto. Sono passati più di venticinque anni ed è facile vedere nelle squadre di skin-heads che scendono nelle strade di Europa per contrastare le diversità per loro intollerabili le figure da lui intraviste già quella mattina.
Non aveva dubbi nel confermare l’esigenza della politica della riduzione dei rischi; ma la scelta della sostituzione come sola uscita istituzionale rimette in piedi l’ideologia. Riteneva che quello che avviene nelle periferie delle grandi città è un combattimento per la presa del potere, perché alla fine non ci sono solo le tossicomanie, c’è lo sviluppo della violenza, ci sono i crimini sessuali che fanno paura alla classi dirigenti. Si tratterebbe di un vero combattimento ideologico, e la scelta tra le parole tossicomania e addiction è lontano dall’essere convincente. La proposta terapeutica non è la stessa per un tossicomane e per un “addicted” ( dipendente); la risposta dei professionisti dipende da molte cose. Sfortunatamente il solo modello alternativo che il potere propone è il modello medico, che vuol fare della tossicomania una malattia come le altre, ed è in questo quadro che viene diffusa la nozione di doppia diagnosi. In effetti questi giovani sono per il potere effettivamente dei malati, ma malati sociali in quanto inadatti alla società, a questa società.

Di suo in italiano sono apparsi vari testi.

Prima “La droga. Che cosa è”, edito da Salani, 1977, poi nel 1984 due libri: ”La droga o la vita”, Rizzoli, e il citato ”Il destino del tossicomane” , Borla editore ed ancora Non esistono drogati felici, Elledici, 1987.

Sul finire degli ’80 altri due testi di ben diverso contenuto: ”La scoperta della vecchiaia; una nuova stagione della nostra vita per imparare a conoscerla, per amarla senza subirla’, Einaudi, 1989 e ”Il non detto delle emozioni’, Feltrinelli,1990.
Di citazioni ne ha ricevute una quantità incalcolabile, decine anche solo in Personalità/Dipendenze, la rivista che dirigo.

Come dicevo la sua influenza negli ultimi tempi è abbondantemente declinata. Oggi vi è un dominio anglofono della scienza ed un approccio metrico al bisogno di efficacia: due parametri che lo hanno, come larga parte della cultura francofona, messo in cantina.

Credo però che appena sbollirà l’illusione scientista la sua grandezza verrà rinverdita. E’ stato maestro di tanti di noi ed ha segnato molti punti essenziali del nostro percorso.

Nel 2007 ha raccontato la sua esperienza trentennale nel libro ”Droga, un grande psichiatra racconta 30 anni coi tossicodipendenti’, tradotto in italiano dall’editore Raffaello Cortina. Una specie di testimonianza che potrebbe definirsi, con le parole stesse del titolo, una vita contro la droga. Olievenstein racconta infatti una vicenda forse unica, la sua che, dopo aver operato per anni e con notevoli successi per il recupero dei tossicodipendenti, ha avuto il coraggio di domandarsi se continuare con quegli stessi sistemi. Riferisce che si è sottoposto a logoranti esperienze ed è tornato infine all’impegno precedente ma con nuove terapie e con uno spirito diverso nei rapporti con i giovani che si affidavano alle sue cure.

Il volume evidenzia la specie di crisi iscritta in un diario dove viene riportato il suo giro del mondo nelle capitali della droga, da Parigi a New York, all’India fino al ritorno a Marmottan che però sta cambiando pelle: «aria nuova, vita nuova» è il primo capitolo della seconda parte del volume, quella che illustra appunto come Olievenstein riesce a dare al Centro lo slancio perduto, a farne ancora il luogo dove i tossicodipendenti arrivano alla salvezza perché hanno trovato chi mira soprattutto a insegnare a vivere.

Oltre sé stesso e la sua esperienza sempre e di nuovo l’orizzonte che si allarga, alla cultura alla antropologia. Eccezionale interesse suscita la descrizione diretta della ricerca di un mitico paradiso terrestre da parte del complicato mondo degli Occidentali. In Oriente, insieme alla droga, hanno cercato il paradiso e sono invece piombati per lo più in uno squallido inferno. Pagine indimenticabili. Olievenstein che riflette e riferisce degli entusiasmi, delle convinzioni, dei dubbi. Dubbi dettati non solo dalla ragione critica, ma da una concezione della vita come missione da compiere per il progresso degli individui e dell’umanità intera. Una lezione di etica che rimane al di là delle cognizioni scientifiche e dei destini professionali.

Spero che anche se questa è una troppo rapida sintesi dei suoi molteplici contributi si evidenzi quanto gli dobbiamo, noi del settore delle dipendenze che ci siamo formati in Italia all’inizio degli anni ’80. La sua maestria ci è importante non solo per le basi professionali che ci ha dato ma anche per comprendere le sfide dell’attualità del nostro agire e per evitare gli errori della contemporaneità.

Riposa in pace “Olive”; ma mentre tu riposi, speriamo che ci sia un recupero del tuo pensiero troppo in fretta oggi dimenticato dietro la rincorsa alle fragili ed improbabili evidenze. Noi che vogliamo lavorare con i tossicodipendenti lasciando loro la piena dignità e potestà umane ne abbiamo molto bisogno. Ma ne beneficerebbero la cultura in generale ed i tossicodipendenti in particolare. Mai più nessuno come lui li ha considerati persone intere da accogliere come sono e da rispettare per quel che fanno.