Avrete sicuramente sentito questa storia, in una forma o nell’altra:
non contano tanto i nomi, conta la trama. Facciamo ad esempio il caso del sig. B, diciamo un tipo di 66 anni: è un tossicodipendente da gioco. E lo è di grosse dimensioni: un “tossico duro” ma senza droga per le mani. E’ un drogato di gioco, ne ho incontrati tanti come lui. Gente che non si arresta davanti al baratro. Quando arrivano sono disperati, rovinati, portati quasi a forza da familiari altrettanto disperati. Sono storie che si ripetono, anche se chi le vive le crede uniche. La storia di B. accade in un paese lontano, la riporta Giappone Times; così ne posso parlare tranquillamente senza fare riferimento ad un locale, ma è molto simile a quelle storie che accadono da noi.
Fino a un certo giorno, diventato per lui ed i suoi purtroppo fatidico 10 anni fa, non c’era in lui nessun segno premonitore, salvo volere considerare una certa formale convenzionalità che si spingeva al punto di farlo apparire ottuso tanto era preciso e ripetitivo. Lo dicevano ossessivo e tante volte in casa erano nati dei piccoli scontri: lui che voleva sempre tutto allo stesso posto ed i suoi che non ne potevano più e lo mandavano sonoramente a quel paese. Era un uomo molto dedito al lavoro, un buon padre di famiglia; non fumava, non beveva, non aveva vizi. Non aveva mai neppure giocato, fino a quel fatidico giorno in cui, stressato dal troppo lavoro, in un impulso, si lasciò cadere in uno di quei posti disseminati lungo le strade, comprese quelle che vanno verso casa; era arrabbiato: entrò dicendosi “che diavolo vuoi che sia, perderò al più 100 yen, chissenefrega”. Giocò con rabbia per sfogarsi. Alla fine ne aveva persi di più, quasi 800. Come era successo? Non lo sapeva; era successo e basta. Ma era come stordito e, alla fine, è diventato un uomo diverso.
La sua storia si trova su una rivista giapponese, il Shukan Asahi, che parla della dipendenza dal gioco: è lì che l’ha presa il Times. Mi è piaciuta e l’ho trovata rappresentativa di un fenomeno ormai diffuso. Quell’uomo era entrato in una sala dove si gioca a pachinko, fosse stato da noi sarebbe entrato in uno dei tanti bar che hanno sul fondo le slot-machine.
Tecnicamente il pachinko non è un vero gioco d’azzardo. Il gioco d’azzardo, con alcune eccezioni, è illegale in Giappone. Il pachinko invece è classificato come un intrattenimento, così bypassa il divieto. Il pachinko è una specie di flipper: lanci una pallina che se va in certe posizioni guadagni una cifra, altrimenti perdi. I clinici che si occupano di questo genere di problema dicono che la dipendenza dal pachinko è indistinguibile dalla dipendenza dal gioco, indipendentemente dai permessi o dai divieti giuridici, come le slot-machine dei nostri bar.
Il governo giapponese vorrebbe legalizzare il gioco d’azzardo. Anche da noi molti premono in quel senso: è parte di una strategia di crescita economica. I casinò porterebbero un sacco di soldi, dicono. L’economia impantanata ne trarrebbe vantaggio, pensano. Mecche del divertimento come ad esempio Las Vegas o Macao sono vetrine scintillanti che fanno sognare molte persone: chi ha mezzi, ci va. Un mio amico racconta i viaggi che fa per andare a Las Vegas come il massimo della (sua) vita. La Stampa qualche tempo fa, era domenica, ha pubblicato un reportage su Macao, nido di esaltazioni e di crolli dei corrotti funzionari cinesi. Insomma tutto il mondo è paese, salvo scoprire come ha fatto l’Olanda che le cifre, da capogiro, mosse dal gioco d’azzardo equivalgono ai costi per curare i danni provocati dal gioco stesso. Come a dire che i soldi entrano in una tasca per uscire dall’altra. Solo che in questo giro c’è chi si arricchisce e chi si rovina.
Una lotta simile accadde pochi anni fa anche a Montreal: il Comune voleva il casinò, ma molti contestavano. Per dirla semplice, i miei amici del servizio contro le dipendenze di Montreal attivarono una campagna di sensibilizzazione per evitare di ritrovarsi famiglie rovinate tra i propri assistiti. La crescente opposizione al casinò ha un argomento forte: creano dipendenza ed inoltre attorno ad essi fiorisce l’industria dell’usura, della prostituzione e della droga.
Sta però di fatto che anche se vietato, il gioco d’azzardo aggancia molto. Si calcola che nel mondo circa lo 0,5-1% della popolazione adulta sia dipendente dal gioco d’azzardo. Parleremmo dai 30 ai 60 milioni di persone! In certi posti lo è di più, in altri meno, ma è presente ovunque. Cinesi e giapponesi sono tra i maggiori giocatori d’azzardo. In Giappone il ministero della salute indica in 5.360.000 i tossicodipendenti da gioco: quasi il 5% della popolazione adulta.
Perché la febbre per il gioco d’azzardo dovrebbe essere così tanto più ferocemente pervasiva in Giappone che altrove? E ‘qualcosa di speciale della società giapponese? Fa forse parte della cultura giapponese? Senza affrontare la questione, Shukan Asahi solleva un altro aspetto: se pur senza casinò il Giappone genera così tante persone dedite di gioco, come sarà una volta che i casinò saranno legalizzati e diffusi ovunque? Sarà il caso del sig. B trasformato in un tipico caso, invece di essere una figura tutto sommato ancora abbastanza rara?
Seguiamo questa storia adattandola al nostro contesto.
Ci vorrebbe un carattere davvero molto forte, oppure bisognerebbe essere molto ricchi, a perdere, che so?, 10.000 Euro in una serata senza lasciarsi andare.
Il signor B. non poteva accettare di avere perso così da pollo ed allora era tornato la sera successiva, e quella dopo ancora e poi ancora: il resto della storia, anche se orribile, è abbastanza prevedibile. A volte si vince, molto più spesso, si perde. Poco alla volta ha prelevato tutto dalla carta di credito, ha preso i soldi del fido, si è imbarcato in un mutuo, ha chiesto soldi in giro. La disperazione lo ha portato alla follia. Voleva risolvere tutto per uscire da quel circuito infernale. Voleva vincere e tornare in pari una volta per tutte. Non ci voleva più andare dove perdeva tanto. Ma passando vicino al bar del gioco riceveva sensazioni come di vertigini, diventava incapace di resistere alla sua attrazione come un tossicodipendente è incapace di resistere a una dose della sua droga. E ‘terribile pensare quanto in basso una persona normale e socialmente rispettabile può sprofondare. Con il passare del tempo la moglie apprese la verità, ma ormai aveva l’equivalente di 100.000 euro di debiti.
Alla fine finì a Gamblers Anonymous, l’associazione di auto-aiuto che ha preso le mosse da Alcolisti Anonimi ed è diffusa in tutto il mondo. Lì “ho capito che ero malato” dice. Ha incontrato persone che stavano anche peggio di lui, tra di loro c’era un dirigente sui 70 anni, che aveva portato la sua azienda alla bancarotta puntando i suoi profitti nel gioco.
Dopo di ciò il signor. B non ha più giocato a pachinko per due anni, ma sa che non è guarito e probabilmente non lo sarà mai. L’impulso sarà sempre lì, pronto a scattare anche solo per una debolezza momentanea. Avete intravisto la storia di tanti nostri concittadini nella traiettoria del signor B:? Credo di sì.
Umberto Nizzoli